Il matrimonio mistico di Santa Caterina e San Giuseppe
Felice Giani
(Palmanova 1772 – Milano 1844)
- Oil on canvas
- 34 × 25 cm (13.38 × 9.84)
Lo squisito dipinto qui presentato spetta senza ombra di dubbio al pennello guizzante di Felice Giani: i tratti di stile, affatto tipici, e la qualità superlativa non necessitano di ulteriori commenti1.
Ridottissima, come ben si sa, è la produzione di dipinti mobili di questo geniale rappresentante della civiltà neoclassica in Italia, forse il più grande. Una civiltà agita, nel suo caso, da un punto di vista del tutto originale, assolutamente eterodosso, che ne fa quasi un unicum nel panorama pittorico europeo. Sono in netta prevalenza, nella sua vasta produzione, le decorazioni d’interni: è quindi la pittura parietale a offrigli il terreno più congeniale, quello nel quale poteva trovare libero sfogo l’estro bizzarro della sua ‘immaginativa sovrabbondante’, come ebbe a dire Arcangelo Migliarini che lo frequentò a Roma in gioventù2.
Se, come si diceva, pochissime sono le opere da cavalletto, ancor meno sono quelle a olio su tela, che non superano la trentina, spesso realizzate, come questa, in piccolo o piccolissimo formato, prettamente da cabinet. Il soggetto rappresentato, le nozze mistiche di Santa Caterina d’Alessandria col piccolo Gesù alla presenza di San Giuseppe (come qui) o di altri personaggi, è fra i più frequenti nella pittura dell’età moderna, quasi sempre in formato da stanza, atto alla devozione privata.
L’ ‘amore visionario e nevrotico’ (Ottani Cavina) per la grande tradizione rinascimentale e barocca è testimoniato, come si sa, da numerosi disegni tratti da dipinti antichi a soggetto ‘alto’, la cui invenzione subisce tuttavia, nella traduzione grafica di Giani, per lo più a penna e inchiostro bruno, animata da un impeto incontenibile e allucinato, un’accelerazione espressiva travolgente, una ridefinizione pressoché totale di spazio e forma che ne trasfigura l’aspetto originario.
Anche nel caso in oggetto, quell’amore traspare, se vogliamo, sul piano dell’invenzione (Correggio, i Carracci...), ma in senso lato, come vaga sedimentazione di cultura, tant’è che nessun preciso modello è ravvisabile. Palpabile e vistosa appare invece la suggestione esercitata da un’eredità più recente e molto vicina al giovane Giani, quella dei Gandolfi, protagonisti del tardo barocco bolognese: dalla pittura di Ubaldo ma ancor più da quella di Gaetano3.
Se solitamente, nelle tempere su carta in specie, la resa pittorica appare fortemente segnata da una sorta di vis grafica del tutto caratteristica dell’autore, è evidente in questa teletta una maggiore e più cremosa fusione della materia da ricondurre appunto ai modelli gandolfiani, al pari della tavolozza, in genere brillante e netta, e qui invece più morbida, quasi pastellata, di straordinaria raffinatezza, in particolare nei mezzi toni. Ma nonostante ciò, il pennelleggiare ricco e felice di Gaetano, alla veneta e ancora in parte rococò, si trasforma qui in qualcosa di completamente nuovo, in una scrittura sintetica e modernissima che costituisce la cifra del pittore; sempre un poco spiritato, anche se alle prese con un soggetto gentile. Un ‘qualcosa’ che d’altro canto farebbe venire alla mente pure la libertà sofisticata, odorosa di essenze preziose, di certo Fragonard, se non fosse che, appunto, anche in questo caso, l’artista italiano appare più audace, ‘più avanti’: tutta sua, ad esempio, la forte, torva testa all’antica di San Giuseppe.
Un simile amalgama culturale e stilistico lo troviamo molto simile in alcuni piccoli dipinti a olio di Giani che Anna Ottani Cavina data al nono o all’ultimo decennio del Settecento: nella Natività liberamente tratta dalla Notte di Correggio (Bologna, collezione Lucchese Salati), nel Giove nutrito dalla capra Amaltea (Bologna, collezione privata), nel magnifico Compianto sul Cristo morto (Venezia, collezione privata) ripreso con magistrale vivezza dal Ribera della certosa di San Martino a Napoli4.
E in particolare in un piccolo ovale dal soggetto vago, Vezzi d’amore (già Roma, collezione Pico Cellini), che ricorda l’iconografia seicentesca della Carità5. Pur nel debito, l’ovale è la prova di ‘un’emancipazione avvenuta’, quella nei confronti dell’eredità gandolfiana: ‘il pennello [...] di Giani rincorre [qui] un’immagine seducente di grazia con sottolineature e improvvisi [...] del tutto specifici alla sua scrittura’. E con un fine costante: ‘contrapporre al classicismo statuario un’apparente negligenza d’incompiuto’. Parole illuminanti, spese da Anna Ottani Cavina per i Vezzi d’amore, che funzionano alla perfezione anche per il nostro stupendo Sposalizio.
1 On the painter see Ottani Cavina 1999.
2 Stella Rudolph, Felice Giani: da Accademico “de’ Pensieri” a Madonnero, “Storia dell’arte”, 29/31 (1977), pp. 175-186.
3 The artist was very attached to the older master, for whose funeral, celebrated in Bologna in 1802, he created an Allegory of Modesty: Notizie 1802.
4 Ottani Cavina 1999, II, esp. pp. 638-639, no. D4, fig. 899; pp. 369-370, no. D7, fig. 902; p. 671, no. D67, fig. 954. The recognition of the figurative source of the Lamentation advanced here for the first time and, once again, confirms the omnivorous voracity of Giani’s interests, which do not exclude even a sample of the most visceral 17th century naturalism such as that of the Spaniard Jusepe de Ribera. 5. Oil on canvas, 46.6 × 33 cm (Ottani Cavina 1999, II, p. 663, no. D55, fig. 942).
Anna Ottani Cavina, Felice Giani (1758-1823) e la cultura di
fine secolo, 2 vols., Milano 1999